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venerdì 19 ottobre 2012

AIA che male!!! ILVA soffre ma non ci fa troppa pena

E mentre l'ILVA "soffre" e pensa a scappare, scopriamo che alcuni l'hanno già preceduta... 

Protesta dei lavoratori davanti all'Ast ai tempi della vertenza sul magnetico

La fuga dall'acciaio in tutta Europa, soprattutto in Italia. La fuga dei potentati dal crollo ILVA. 

Ci secca ripeterci, ma lo sapevamo da un pò...


Mentre gli avvocati dell'ILVA ricorrono e ricorrono a scopo dilatorio, poichè ogni giorno che passa qualche milione di euro si mette in cascina e qualche vecchia commessa viene rispettata, oggi l'azienda ci fa sapere che la nuova AIA, così aspramente dibattuta e combattuta, è decisamente troppo per lei:

"per l’Ilva è necessario «valutare la compatibilità economica anche alla luce del mercato e della minore competitività». Anche perchè, fanno capire dall’Ilva, tutto dipende da quella che sarà la capacità produttiva dello stabilimento dal momento che «c’è un limite che ci è stato indicato (8 milioni di tonnellate all’anno, ndr)» per cui per l’azienda è necessario verificare «se questo limite è coerente con l’impegno finanziario che ci viene richiesto».
Cifre che, al momento, la stessa Ilva non conosce anche se si parla di una forbice tra i 3 e i 10 miliardi di euro."
da Corriere del Giorno online

Come già è troppo per Corporeus Corpora, che non a caso ha deciso di non occuparsene.

Chi ci legge sa da mesi che la vicenda aveva tutte le carte in regola per terminare alla maniera che vediamo, con o senza l'AIA dell'inqualificabile Clini: il nostro assunto fondamentale è che, al di là dell'oggettivo e colossale problema sanitario ed ambientale, il mercato dell'acciaio risulta in forte calo da anni. Per di più, quel che rimane di esso è in mano saldamente ai Brics, in ciò che riguarda gli acciai di largo consumo. 
In mano invece a Germania, Giappone, Corea (e pochi altri) per gli acciai speciali, prodotti con nuove tecnologie, avanzate ed ecosostenibili.
In Europa poi, continente che di questi tempi non spicca certo per settore auto o edilizia di massa, il business era ed è sempre meno appetibile. Diremmo quasi scomparso. 
Come dimostrano le numerose chiusure attualmente in corso, distribuite equamente tra le nazioni UE: vedasi Francia, Spagna, persino Repubblica Ceca
E poi in Italia, proprio ad ottobre guardacaso, sia la Lucchini di Piombino che Beltrame Marghera che la Thyssen (Finlandese) di Terni stanno dicendo ciao ciao.

Davvero ridicolo che i media italiani trattino separatamente le singole chiusure, come fossero relative a problemi diversi e non invece al medesimo... ma i media italiani, si sa, campano coi soldi della politica ed assoldano operai dell'informazione, non teste pensanti.

Infine ricordiamo che la possibilità di non rispettare alcuna norma di compatibilità ambientale e sanitaria è molto probabilmente ciò che ha permesso ad ILVA di restare sul mercato: il parco minerario più grande del mondo garantiva di poter far scorte immense quando la materia prima costava poco; gli enormi spazi per depositare bramme e tondini permettevano di vendere quando i prezzi fossero alti; i risparmi sulle tecnologie di controllo emissioni contribuivano decisamente a tener bassi i costi, così come gli smaltimenti "fai da te" di enormi quantità di scorie, in discariche presenti internamente all'azienda (incontrollabili) o nei pressi. 
Stesso dicasi dei costi molto bassi per l'acqua necessaria al ciclo produttivo, che fosse di acquedotto o desalinizzata "selvaggiamente" dal mare, o della prosecuzione ininterrotta del ciclo continuo così come concepito nel 1959, inquinante per definizione. 
Chiudiamo la carrellata delle economie di scala con la mobbizzazione di lavoratori, già localmente non particolarmente consci dei loro diritti (e doveri, a dire il vero), col clima di persuasione, aperta ed occulta, della politica locale. 
Infine una gestione tutta a sè del porto, in proprio e praticamente da monopolista tanto da finire anch'essa in tribunale, completava gli asset aziendali.
Una volta che questi "vantaggi" competitivi, vero "dumping ambientale", non le fossero più concessi (come infatti accade...) e le migliorie dovessero rovesciarsi, come è normale, sui costi del prodotto finito... cosa volete possa far rimanere sul mercato questo carrozzone obsoleto, inquinante e senza più il suo tradizionale mercato?

Per chi desiderasse approfondire, ricordiamo quasi tutto quel che è stato pubblicato da Corporeus Corpora su ILVA, ma in particolare questi post, ricchi di fonti e documentazione, maggiormente incentrati sulle questioni qui accennate a titolo riassuntivo: 

Ma soprattutto
in cui più di due mesi fa essenzialmente anticipavamo, sulla base dei dati, delle indiscrezioni e della logica le possibili conclusioni della vicenda. 
Inclusa la più logica tra tutte, salvo miracoli: la chiusura degli impianti.

venerdì 27 luglio 2012

Speciale: dalla vandea dello statalismo industriale dirigista, poi privatizzato

1964 - Clicca qui - didascalia - per il video

Il Sit in dei dipendenti Ilva a Taranto

 Nelle giornata di ieri migliaia di lavoratori dello stabilimento ILVA di Taranto, ex ITALSIDER - IRI, la cui storia un pò enfatizzata, emendata da molti retropensieri che pur vi furono e da alcune fondamentali considerazioni geopolitiche, potete trovare qui ben descritta, si sono rovesciati per le strade del capoluogo, bloccando il traffico sino ad ora, salvo poche interruzioni. Isolando in breve la città. Una parte cospicua di loro ha manifestato davanti alla prefettura, in un clima di sbalordimento, incertezza ed incredulità che spero le fotografie, di prima mano, sappiano testimoniare. 
In queste circostanze non posso omettere di ricordare un paio di eventi salienti, che legano indissolubilmente la vicenda del gigantesco stabilimento pugliese alla storia maggiore d'Italia: 
  • l'inaugurazione di Italsider, alla presenza di Moro e Colombo, che l'archivio Luce del Senato ci mostra gremita di Stato e parastato, in un trionfalistico videogiornale d'epoca.
  •  la Santa Messa nella notte di Natale dell'evocativo 1968, celebrata da Arcivescovo e Papa presso lo stabilimento industriale, allora di recente costituzione e benedizione.
Papa Paolo VI coll'Arc. Motolese, Notte di Natale 1968, Italsider - Taranto
Trascorsi 50 anni, le risultanze delle indagini della procura di Taranto su atti criminali e di corruttela, unite alle perizie mediche testimonianti un nesso eziologico indiscusso, sommate ai tanti studi nazionali sull'inquinamento locale (che toccherebbe falde acquifere e ciclo alimentare, oltrechè naturalmente l'aria), ci dicono come la miopia degli anni '60, eternata in quei documenti storici e finanche parzialmente contestualizzabile, oggi abbia invece fatto definitivamente il suo tempo.
E con essa l'infornata di dirigismo, sindacalizzazione in malafede, assistenzialismo di Stato, incultura della monocultura, baby pensioni, doppi lavori in nero, appalti pilotati.
Alla luce di quanto sopra detto e linkato, fa davvero inarcare le sopracciglia la tirata della Federacciai-Confindustria, non nuova a manifestazioni di assoluta ipocrisia sull'argomento,  sul sequestro degli impianti siderurgici di Taranto:

lunedì 16 luglio 2012

"L’Italia è un paese povero pieno di gente ricca", sinora, di beni. Ma senza libertà

  o si comanda o si obbedisce (in genere la seconda)

 

L'Italiano di ieri è forse simile al Paperone di Barks?
Forte è in questi anni il dibattito sullo stato etico, che tutte le democrazie continentali occidentali conoscono molto bene. Un pò meno forte da noi, che lo viviamo sulla pelle. Parliamone.
Storicamente, nella modernità, esso è il portato naturale dell’idea di stato così come fuoriesce dalle pagine Hegeliane.
Entità sovraindividuale, fonte del diritto, superiore ad ogni altra autorità; avente il potere, anzi il dovere, di premettere all’interesse del cittadino quello dello stato. E’evidente che entro certi limiti, e se si intende per stato la collettività, posto che qualcuno riesca a definirla, il discorso fila. Del resto, la politica non è altro se non ricerca asintotica di contemperazione ed equilibrio tra gli opposti interessi dei consociati. Una volta attribuito alla totalità della popolazione maggiorenne il potere di decidere delle sorti della nazione tramite la democrazia rappresentativa, il problema della fonte del potere politico non dovrebbe sorgere. Se non a livello pratico, ovverosia della effettività (parola cara a Kelsen) dell’esercizio di tale potestà. Che, ad esempio, potrebbe essere inficiata dalla eccessiva povertà di alcune zone o dal loro isolamento culturale. O, anche, da un diffuso astensionismo. O da un'informazione integralmente asservita agli interessi del potere (mal) costituito. Ma questa è altra questione. Facciamo un passo indietro.
Entro quali ambiti si deve svolgere la necessaria attività dello stato, chiamato a permettere ed a vietare? Questo è il vero busillis. L’ipertrofia degli stati figli dell’idealismo è stata pagata a caro prezzo in economia. Una cosa è il ruolo, a volte effettivamente indispensabile, dello stato o delle sue emanazioni dirette -vedi IRI- laddove la spinta imprenditoriale privata è assente.
Anche il bisogno di tenere sott’occhio servizi di pubblica utilità giustifica partecipazioni, dall’energia alla sanità. Ma entro limiti ben precisi. E fintanto che si dimostra utile e funzionale.
Le mani dello stato, da noi gracile burattino in mano ai partiti ed alla Chiesa, su ogni attività che abbia rilevanza economica è ben altra cosa. Ed ha ben altri effetti. Segnatamente la creazione di una burocrazia arcigna, lo sviluppo del clientelismo, la morte della concorrenza che poi è quella cosa che tiene i prezzi bassi e fa aumentare la qualità dell’offerta.
Lo stato imprenditore, spesso pessimo anche perché spogliato dai suoi stessi cittadini (tanto da far dire ad un diplomatico anglosassone che “ l’Italia è un paese povero pieno di gente ricca”), per far fronte alla sua straripante attività di impresa “a perdere” è stato costretto ad imporre, per un verso, tasse da espropriazione, che deprimono lo sviluppo perché distruggono la molla del guadagno; per l’altro a proporre i suoi titoli- BOT, CCT, BTP ecc.- a corsi vantaggiosissimi per gli investitori.
Allo stesso modo ha preso in prestito capitali da tutto il mondo, scommettendo con cinismo millenario sulla geopolitica della guerra fredda, privandosi di ogni paracadute in caso di crisi sistemica (vedasi oggi). E Il denaro è fluito verso le casse dello stato, disertando a lungo le borse, ovvero la fonte principe di finanziamento per la libera imprenditoria, costretta una volta di più a batter cassa alla banche. E, quindi, di nuovo allo stato, che di tante banche è stato aperto, od occulto, azionista. Alterando pertanto la concorrenza libera che i privati ponevano in campo. In quanto per i non “amici degli amici” il credito diveniva quasi impossibile, per gli altri invece si usavano le risorse “di stato”, reperite come appena ricordato e spese con allegria.
Il deficit di autonomia per i cittadini non si limita ovviemente a questo profilo. Anzi i profili sono tra loro interconnessi, per cui la libertà di pensiero e di scelta etica riverbera sull’economia e viceversa:
Ci vorrebbero far credere che senza Stato etico...
Uno stato invasivo di tutti i plessi economici diviene nemico dei suoi stessi cittadini, poiché innesca un meccanismo perverso di disservizio, depressione e controllo. L’invadenza etica dello stato, anch’essa largamente presente in Italia, nè è sorella, con tutte le controindicazioni, non solo morali ma anche economiche, che proverò a riassumere.